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Non si può morir d’amore…

A Stefania piaceva scrivere e utilizzava la scrittura per raccontare ciò che le stava a cuore, come l’impegno nel movimento studentesco, la difesa dei diritti, il suo essere donna.

Stefania scriveva poesie e articoli che firmava come Sen. Poche ore prima che il suo ex fidanzato la uccidesse a coltellate perché la loro storia era finita e lei voleva lasciarlo, aveva lasciato questo messaggio:Ciò che non si può dire in poche parole, non si può dire neanche in molte”.

Per quanto difficile, proveremo a definire i contorni di una storia che coinvolge persone che non conosciamo ma alle quali ci sentiamo di esprimere la nostra vicinanza, prima fra tutte Stefania, poi i suoi amici e la sua famiglia. Proveremo anche a riflettere su questa vicenda non lasciando che sia la cronaca o gli atti giudiziari a far sì che l’attenzione si sposti da Stefania a Loris, perché come ogni volta accade, la vittima scompare agli occhi di tutti e il mostro viene sbattuto in prima pagina.

 Stefania era una ragazza di 24 anni, non molto diversa da chi scrive. Faceva l’università e aveva mille interessi.

Stefania, come molte di noi, era una ragazza precaria e contro questa sua condizione scendeva in piazza e si organizzava. Stefania era consapevole di essere una donna, e non solo in termini biologici, conosceva le gabbie del mondo del lavoro, le lettere di licenziamento in bianco, i lavori part-time pensati per le donne, la difficoltà ad essere assunta per paura di assenze e congedi. Sapeva perfettamente che ogni giorno l’oppressione per una donna significa fare i conti con se stessa e con l’utilizzo strumentale che viene fatto del proprio corpo. Si ribellava contro la dicotomia donna-madre, contro i fondamentalismi della religione ma anche contro la mercificazione dei corpi nella politica, nella pubblicità e nella televisione, contro i falsi moralismi e contro le carceri mentali in cui viene segregata ogni forma di diversità. Scriveva: “No, non mi fanno paura i gay, le lesbiche, i/le trans, i bisex, i neri, i gialli, i rossi, gli alieni… gli stupidi mi fanno paura. Soprattutto se inconsapevoli e presuntuosi”.

Conosceva la violenza sulle donne, sapeva come agisce, che ricatti utilizza, quali sono i moventi dietro i quali si nasconde. Sapeva anche che la maggior parte delle donne subisce violenza e trova la morte proprio da chi non se l’aspetta, un familiare, un convivente, un ex marito o compagno.

Sembra strano, eppure Stefania è morta esattamente come sono morte le altre 139 (e oltre) solo nel 2011 in Italia e come le altre donne non è riuscita a salvarsi prima. Questa storia è esemplificativa e in questi primi giorni del 2012 ricordiamo Stefania per ricordare tutte quelle che, come lei, sono state ammazzate o picchiate, stuprate o segregate. In lei troviamo tratti comuni a tutte le storie di violenza che conosciamo.

C’è sempre qualcun@ intimamente convint@ che la violenza sulle donne non l@ riguardi da vicino o che venga a manifestarsi solo quando in qualche modo “ci si caccia nei guai”… una persona violenta, un amore sbagliato, avvisaglie che potevano lasciar presagire o peggio ancora uno stile di vita libero … Come se tutte quelle che fino ad ora “ci sono cadute” soffrano di una banalissima sindrome da buona fede o siano poco forti e determinate. Il più delle volte, invece, ci siamo trovate a conoscere le “vittime” della violenza, abbiamo riconosciuto donne forti e coraggiose, molto spesso consapevoli di ciò che le stava accadendo e quasi mai rassegnate a continuare a subire. Abbiamo visto referti, querele, ordini di allontanamento. Le abbiamo viste cambiare amicizie, cambiare abitudini, a volte addirittura cambiare casa. Sono le donne che oggi lottano due volte contro la violenza: lottano contro i loro aguzzini e lottano contro questo stato che le rende invisibili per poi “riconoscerle” solo dopo la morte. Come può essere considerato questo un “affare privato”? In Italia i tagli al welfare hanno portato i centri anti violenza a chiudere i battenti uno dopo un altro in quanto il governo ha delegato il problema ai centri locali, i quali a loro volta non finanziano le strutture e chi ci lavora. Quelli che resistono sono veramente pochissimi rispetto all’utenza che gli si rivolge, donne che hanno bisogno di pronti interventi legali, psicologici, orientamento al lavoro, rifugi perché stanno scappando dalle proprie case o semplicemente una prima accoglienza. Una crisi che non abbiamo generato noi, ma chi ci governa e chi li finanzia, ha fatto si che sempre gli stessi soggetti debbano pagare in termini di smantellamento dei diritti. Questa crisi non è neutra, come abbiamo più volte detto, perché la conseguenza a questa politica di austerity sarà un carico ancora maggiore per le donne, ancora le prevalenti valvole di ammortizzatore sociale nel nostro paese. Allora finirà che una donna a casa è una donna più utile di una donna che lavora, perché si può occupare dei bambini, degli anziani, dei malati e di tutto ciò a cui lo stato non pensa. Sarà più semplice oggi permettere licenziamenti di massa e chiusura di fabbriche e indotti con lavoro prevalentemente femminile. Guardiamo quello che è successo alla OMSA, che chiude improvvisamente lo stabilimento di Faenza per riaprire in Serbia. 239 lavoratrici a casa! Nello stesso momento si innalza l’età pensionabile (per chi la vedrà la pensione!).

Violenza, precarietà e assenza di diritti vanno di pari passo e si alimentano a vicenda. L’unico modo per reagire è quello di intervenire immediatamente, mediante reti di donne, sportelli e centri di aiuto. In Campania, ad esempio, dove la situazione dei fondi al terzo settore già era fortemente martoriata, arriva la notizia dello stanziamento dei fondi europei, ben 10 milioni di euro destinati alle donne napoletane ma nelle mani della Regione. Fondi bloccati, fondi persi a causa delle guerre di un potere machista che preferisce l’annientamento a zero di bacini di posti di lavoro, servizi e strutture per inseguire le proprie ripicche elettorali.

Cosa ci rimane? La resistenza degli spazi, la condivisione delle pratiche, il confronto tra le soggettività. Il compito di tutte e tutti noi, inoltre, è quello di intervenire in anticipo e far si che agli uomini così come alle donne vengano proposte delle alternative, quanto meno culturali, utili a sconfiggere il sessismo e il machismo dilagante nella nostra cultura a tutti i livelli, in tutti gli ambienti sociali. La storia di Stefania ci insegna inoltre che non esistono “spazi liberati” da queste forme di oppressione per il solo fatto che siamo noi stessi a definirli tali. Ci indica invece che la strada è quella dell’unità delle lotte e la costruzione di una contro cultura antifascista e antisessista, in cui il femminismo è per noi è una pratica e non il fine ultimo. Prendersi cura degli spazi e dei percorsi di lotta equivale e far si che l’antisesissimo e l’antimachismo non siano parentesi tra le “varie e le eventuali” che o si danno per scontate o per lotte perse in partenza.

Partendo da queste considerazioni vogliamo ricordare Stefania, e visto che nessuna discussione nasce e finisce su un foglio scritto, vogliamo incontrarci con tutte e tutti quell@ che credono nell’importanza dell’antisessismo e nella costruzione delle lotte comuni.

 

“Queste righe sono per quelle donne che non hanno ancora smesso di lottare. Per chi crede che c’è ancora altro da cambiare, che le conquiste non siano ancora sufficienti, ma le dedico soprattutto a chi NON ci crede. A quelle che si sono arrese e a quelle convinte di potersi accontentare.”

Stefania Noce

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Fare porno in una stanza tutta per sé: intervista a Beatriz Preciado

intervista a cura del blog femminismo a sud

Si è da poco concluso il tour di presentazione della edizione italiana di Pornotopia, l’ultima opera della filosofa spagnola Beatriz Preciado. Durante la presentazione ufficiale nei locali della casa editrice Fandango abbiamo avuto come Femminismo a Sud l’opportunità di intervistare Beatriz, teorica che da tempo stiamo seguendo con passione.

Pornotopia, che analizza l’ascesa dell’impero Playboy in piena guerra fredda, nasce successivamente alla pubblicazione di un altra imprescindibile opera, Testo Yonqui, libro che Fandango si è impegnata a pubblicare in Italia il prossimo anno.

In Testo Yonqui Preciado analizza il neoliberismo e i dispositivi di controllo attuati  all’interno del sistema capitalista fondato sull’industria pornografica e farmaceutica. Sono proprio questi due mercati, paradigmatici dell’attuale forma di capitalismo, a fornire a Preciado gli elementi per descrivere il sistema vigente: il regime farmaco-pornografico.

Buona lettura!

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1. Teoria Queer e femminismo: tre domande per rompere il ghiaccio.

Iniziamo parlando di queer. In Italia i queer studies non hanno avuto lo stesso sviluppo che in altri paesi, come ad esempio quelli anglosassoni, tuttavia il termine queer è sempre più conosciuto e utilizzato, principalmente negli ambienti della politica femminista e glbt. Cos’è per te il queer? Ti definisci queer?

Il problema della diffusione del movimento queer in Europa e in particolar modo nei paesi come Spagna e Italia, dove è arrivato solo negli anni 2000, nasce dallo stretto legame con la sua personale genealogia all’interno dei movimenti politici nordamericani.

Il lavoro che faccio insieme a un gruppo di femministe (anch’io per certi aspetti mi considero femminista) è in parte collegato a questa genealogia e ai vari elementi che hanno portato a quella rottura che il movimento queer ha rappresentato.

Da una parte abbiamo la critica alla naturalizzazione del soggetto politico del femminismo, il soggetto Donna; la capacità di mettere in discussione questo soggetto del femminismo è centrale: molte delle persone, che come me stanno lavorando in questo momento, si sentono in continuità con questa critica.

La teoria queer nasce infatti a partire dagli anni Ottanta come una rottura con il femminismo istituzionalizzato e in connessione con le lotte dei movimenti femministi radicali degli anni Settanta-Ottanta: le lotte del femminismo nero, della critica coloniale, contro la guerra in Vietnam, ecc. La teoria queer ha messo in discussione tutto il processo di istituzionalizzazione del femminismo e ha stabilito relazioni con gli altri femminismi minori, con i femminismi dei margini che erano lì fin dagli anni Settanta.

Abbiamo poi un altro fattore che è stato altrettanto importante, e che ho lasciato trasparire in Testo Yonqui, quello della diffusione dell’AIDS negli anni Ottanta. Questo fenomeno segna l’apparizione di un nuovo corpo vulnerabile che non è più l’obiettivo del controllo statale o del dibattito religioso, ma si colloca al centro di un insieme di politiche neoliberali farmacologiche.

In risposta a queste politiche emerge anche un nuovo tipo di resistenza e un nuovo tipo di azione politica che non si basa più sull’identità sessuale ma su qualcosa che potremmo denominare come la materialità molecolare. Queste forme di lotta nascono dall’esperienza di condividere un corpo comune e dalla presa di coscienza che categorie quali eterossessuale, omosessuale, ecc., sono in realtà distinzioni formulate nel diciannovesimo secolo. Oggi risultano superate a causa delle nuove tecniche di produzione del corpo e della soggettività, che hanno sorpassato le tecniche tradizionali mediche per formare un insieme di nuove tecniche profondamente neoliberali, che costituiscono il controllo farmacologico.

Dal mio punto di vista questo passaggio è fondamentale: le politiche queer furono profondamente influenzate dall’invenzione di nuove strategie rispetto all’apparizione dell’AIDS. Sembra invece che per il femminismo la questione dell’AIDS sia sempre stata più o meno periferica nonostante abbia fornito un contributo importante alla creazione di questo nuovo corpo comune, questa nuova base molecolare, che supera la distinzione tra eterosessualità e omosessualità, tra uomini e donne e fa sì che sia emersa una nuova forma di lotta e resistenza non più articolabile solo come movimento femminista o come movimento GLBT.

Quando parlo di queer non mi riferisco quindi ad una singola teoria quanto a un insieme di tematiche utili per riflettere sulle nuove strategie utilizzate dal potere per produrre le soggettività che hanno sostituito le distinzioni tradizionali operanti nel secolo diciannovesimo. Evidentemente quello della teoria queer è un ambito enorme e dal mio punto di vista non entra in conflitto con altre teorie come, ad esempio, quella transessuale.

E’ quindi possibile parlare di un soggetto politico Queer come si parla di soggetto politico Donna?

Credo sia possibile parlare di un soggetto queer. In Italia avete grandi teoriche di questa forma di soggettività, come ad esempio Teresa De Lauretis, che è stata una lettura fondamentale per molte di noi. Però l’elemento interessante della soggettività queer è che, nel caso possa esistere, deve essere intesa come un progetto. Non è un substrato politico a partire del quale è possibile costruire l’azione, ma un progetto politico: è una narrazione utopica che permette di mettere in questione le norme di produzione della soggettività. Invece che soggetto io la chiamerei: una molteplicità di progetti di critica e di resistenza.

In Testo Yonqui riflettendo sulla tua pratica politica di autosomministrazione di testosterone in gel ad un certo punto ti domandi: “Come posso spiegare quello che mi sta succedendo? Cosa devo fare con il mio desiderio di trasformazione? Che fare di tutti quegli anni in cui mi sono definita femminista? Che tipo di femminista sarò ora, una femminista dipendente dal testosterone o un transgender dipendente dal femminismo?”. Ti riconosci sempre in questa domanda o l’hai superata?

Continuo a riconoscermi in questa domanda perché credo che il femminismo tradizionale continui ad avere una visione opaca del suo soggetto politico: questo soggetto mitico che è la Donna. Io mi sento in dissidenza con questo soggetto Donna, mi sembra normativo, imposto. Mi dissocio come identità, mi sta stretta, la mia relazione con questo soggetto politico è di disidentificazione. D’altra parte non posso nemmeno identificarmi totalmente con certi soggetti transessuali, dato che la transessualità è vissuta come il passaggio verso una identità femminile o maschile e l’identità maschile mi sembrerebbe altrettanto imposta e normativa quanto quella femminile.

La relazione con il mio corpo e con il desiderio sessuale, saranno sempre spazi di conflitto, ed è giusto che lo siano. Come è possibile godere sessualmente o identificarsi con il proprio corpo all’interno di un regime in cui le identificazioni e le forme del godimento sono normative? Credo che questa sia la difficoltà principale e nonostante sia faticoso e impegnativo è importante desiderare la ricerca di un momento di critica.

E’ una lotta sempre in corso…

Certo, è una lotta e credo che esperienze come il drag king, il postporno, il transgender, ecc., sono proprio un insieme di laboratori per inventare altre forme di produzione di soggettività che, purtroppo, tendono quasi sempre a fallire.

Sono quindi delle tattiche.

Sì, sono delle tattiche però allo stesso tempo dovremmo rassegnarci e far morire anche queste nuove identità serrate e già definite insieme ai termini come gay, lesbica, eterosessuale, transessuale.

 

2. Da pornotopie a micropornotopie: fare porno in una stanza tutta per sé.

Parliamo di Pornotopia, l’ultima tua opera tradotta in italiano. Ad un certo punto del testo affermi che “l’epoca Playboy coincide con la trasformazione del regime disciplinario in forme farmacopornografiche di controllo e di produzione della soggettività” e che “l’elemento caratteristico di Playboy è aver reso la pornotopia un oggetto di consumo all’interno del mercato liberale”.

Con l’ingresso del corpo autopornografico tra le forze della economia mondiale avviene una rottura con le grandi pornotopie in stile Playboy, basti pensare al successo della piattaforma livejasmin.com dove ogni persona può trasformare la sua camera e il suo letto nella propria micropornotopia. Questo tipo di lavoro sessuale che permette la creazione di un proprio spazio, contribuisce a modellare nuove soggettività? Possiamo considerarla davvero come una rottura o rappresenta un semplice adattamento dello stesso sistema capitalista?

Credo che in questo caso la relazione sia più complessa. E’ sempre in atto un processo di desoggettivazione e di soggettivazione.

Mi sembra molto importante che qualsiasi persona, indipendentemente dal suo stato sociale, politico o economico possa accedere alla produzione pornotopica, nonostante sappiamo bene che non tutti hanno lo stesso impatto e la stessa possibilità di visibilità in internet, a causa delle regole di funzionamento dei motori di ricerca.

Tuttavia mi pare comunque significativo che qualsiasi persona possa infiltrare questo spazio di mercantilizzazione della sessualità e produrre una micropornotopia, innescando un processo di proliferazione di altre forme di pornotopie, che ha portato quasi al crollo dell’impero Playboy.

Altrettanto importanti sono i codici attraverso i quali si rappresenta la sessualità: ad esempio, l’altro giorno stavo guardando il lavoro di una attrice porno francese, Nina Roberts, che mette in atto quello di cui parli tu, ossia si filma in casa sua e si connette in diretta. L’unica differenza è che è assolutamente violenta e totalmente punk e si dedica a insultare i clienti che entrano nella sua pagina. Arriva a creare un livello di distruzione straordinario: la cosa curiosa è che i clienti pagano, ci sono clienti per tutte le pornotopie.

Un altro esempio: in Colombia ho conosciuto quella che definirei una attivista postporno, Nadia Granados, detta la Fulminante, suggerisco a tutti gli internauti di andare a vedere la sua pagina web.

Nadia unisce un altissimo grado di erotizzazione del suo corpo, riprendendo i codici esatti della pornografia normativa eterosessuale, ad un livello altissimo di critica discorsiva. Ad esempio, si filma nuda in una spiaggia del Brasile mentre elabora una critica politica sull’acqua. Si crea una frizione costante tra l’imperativo masturbatorio del porno e il contenuto discorsivo.

In pratica indirizza questa energia masturbatoria verso tematiche politiche.

Esatto, quello che produce è un cortocircuito pornotopico nel senso che l’osservatore del video pornografico non può più godere allo stesso modo nonostante i codici visuali siano gli stessi. Anche in questa performance risiede una lotta.

Uno dei problemi della sinistra è il desiderio di soluzioni assolutamente pure, di soluzioni che siano totalmente libere da implicazioni con le strategie del potere. Io credo che una delle cose che abbiamo imparato con le molte lotte, ad esempio con la lotta dell’AIDS, è che dobbiamo espropriare e reinterpretare la tecnologia del potere: utilizzare la tecnologia di produzione di soggettività, che fino ad ora appartenevano al dominio normativo, per produrre nuove forme di soggettività che siano capaci di resistere.

Chiaramente questo non è facile e non avrà un soggetto politico definito, come mi chiedevi prima. Non c’è un soggetto politico che è puro, disincarnato, che non ha alcun affetto… no, no è il contrario, è un soggetto notevolmente implicato, un soggetto apertamente passionale capace di lasciarsi coinvolgere fino in fondo in queste tecnologie, che non abbia paura del suo desiderio, che non abbia paura dei suoi propri affetti. Fino ad ora il soggetto della sinistra è stato un soggetto fondamentalmente virile, nel senso che aveva apparentemente un disinteresse virile per tutto quello che ha a che vedere con il desiderio sessuale, affettivo, ecc.

Questa è la critica che in Testo Yonqui rivolgi a Toni Negri, giusto?

A Negri, esattamente. Nonostante ci sia molta continuità tra la mia critica e quella di Negri e quella di molti altri autori italiani, sono infatti una grande lettrice di autori italiani come Lazzarato o Virno, ripeto di fare attenzione con questo soggetto politico della sinistra che è un soggetto fondamentalmente virile.

La produzione postpornografica come lotta contro l’attuale regime economico può esistere dentro il mercato o deve essere rigorosamente autoprodotta e copyleft?

Questa questione del dentro o fuori del mercato si fonda sul problema che, per esempio, la maggioranza delle lotte che avvengono oggi nell’ambito postpornografico sono su internet. Questo spazio è uno spazio totalmente neoliberale, o no? Voi lavorate con il blog e sapete bene che questa relazione di tensione importante data dal mercato esiste.

Io credo che avverrà una lotta nella rete come quella avvenuta negli anni Ottanta per la riappropriazione di spazi come la televisione, grazie alla nascita delle televisioni minori o delle radio libere. Penso sia necessario aprire nuovi spazi dentro il web, inventare di nuovi, tra cui anche quelli intranet. Alcuni dei gruppi con i quali lavoro stanno progettando di aprire spazi intranet che siano come paradisi dentro internet. Internet e le tecnologie informatiche sono tecnologie di produzione di soggettività che rappresentano spazi cruciali di riappropriazione. La relazione con il neoliberalismo è importante perché ritengo che nei movimenti queer e femministi c’è stato un momento in cui si è persa questa tematica. Ad esempio, faccio spesso riferimento a un’altra italiana, Silvia Federici, una pensatrice di critica del capitalismo che è assolutamente fondamentale recuperare oggi. Il mio lavoro consiste nello stabilire una alleanza, una relazione strategica, connessioni critiche possibili tra il femminismo anticapitalista, fondamentalmente di taglio marxista degli anni Settanta, totalmente distante dalle pratiche queer o transgender, e i movimenti radicali di oggi.

Dal mio punto di vista i movimenti transgender, femministi e postporno attuali sono movimenti che stanno ridefinendo il significato di riproduzione della vita e che pertanto alla domanda che pone Federici su quali possano essere sistemi alternativi di produzione e di riproduzione a quelli capitalisti, la risposta è “siamo qui”. Non è quello che avevate immaginato, non è questo soggetto Donna, no, siamo noi e siamo allo stesso tempo eco-cyborg. Quello che si sta formando è un movimento eco-queer importante e lo stiamo costruendo noi a partire dalla sinistra radicale.

 

3. Indignazione e pornotopie: che succede in Italia?

Immagino tu sappia che in Italia molte persone dalla lettura di Pornotopia hanno tratto analogie con gli scandali sessuali che hanno coinvolto il presidente del consiglio italiano. Di fatto sono molti gli elementi che tu analizzi nel testo e che si riscontrano in questa vicenda. L’immaginario pornotopico che viene narrato dai media ha molte analogie con quello Hefneriano. La cosa per noi più curiosa è stata tuttavia la reazione di molte donne, ma anche di uomini, che hanno risposto a una chiamata ad una indignazione collettiva femminile nazionale lanciata da alcune donne del mondo della politica e dei sindacati e che ha dato vita al movimento Se non ora quando.

Questa indignazione in molti casi si è indirizzata contro le escort e per estensione a tutte le lavoratrici sessuali, basandosi sulla dicotomia donne per bene/donne per male. Credi che in questo caso il regime farmacopornografico si sia servito della retorica delle politiche per le pari opportunità per allargare il controllo sul lavoratore simbolo di questo sistema, ossia la prostituta? Può essere interpretata questa chiamata come una strategia per nascondere la situazione di pornificazione e di precarizzazione del lavoro, attuata attraverso la crocifissione del modello paradigmatico?

Il problema è cosa rappresenta oggi il modello berlusconiano: esso è l’esempio paradigmatico della produzione farmacopornografica attuale, data la concentrazione estrema di tecniche di potere e di mascolinità. Quindi la reazione indignata di fronte a quello che stava succedendo avrebbe dovuto portare alla richiesta immediata della legalizzazione del lavoro sessuale e alla nascita di un movimento formato dai sindacati per i diritti civili delle sex workers che avrebbero dovuto contestare la contraddizione tra il consumo della prostituzione da parte di chi detiene il potere e l’illegalità in cui viene relegata nello stato italiano, così come accade per il consumo delle droghe. Era una occasione unica per spiegare a partire da questo modello il funzionamento dell’economia liberale. Era necessario fare una chiamata ai sindacati dei/delle sex workers in Italia di fronte al governo.

Infatti questa è stata la risposta che è partita dal comitato dei diritti civili dei/le sex workers rappresentati da Pia Covre e che è stata supportata anche da Femminismo a Sud con la campagna degli Ombrelli Rossi. Purtroppo questo messaggio non è sempre arrivato; in molti ambiti l’analisi si è fermata di fronte alla dicotomia donna per bene/donna per male.

Hai ragione, è terribile la strumentalizzazione che è stata fatta. Il modello berlusconiano ha avuto un doppio esito, nel senso che è riuscito a creare anche un ulteriore modello di donna degna, che sarebbe la donna non prostituita; tuttavia in questo sistema economico tutti i lavoratori sono in qualche modo pornificati. Il fulcro dell’economia neoliberale è proprio il lavoratore sessualizzato.

La centralità del modello berlusconiano non è quindi la prostituta ma la costruzione irrealistica della donna degna come donna libera da tutte le prostituzioni.

Cosa pensi in generale della Indignazione come sentimento collettivo?

Non è una parola nella quale mi identifico. La nozione di dignità in se mi sembra un po’ fastidiosa: come se uno avesse davvero una dignità. E’ curioso che questa nozione abbia avuto questo successo politico. Si dovrebbe creare piuttosto una movimento internazionale di prostitute, che sarebbe di fatto molto più degno che un generico movimento di indignati. Comunque ho l’impressione che all’interno del movimento degli Indignados in Spagna la componente politica-sessuale sia importante. Ripongo speranze proprio in questa effervescenza del movimento politico-sessuale all’interno degli Indignados.

Un’ultima domanda. La Commissione Globale sulle politiche sulla droga ha dichiarato un fallimento il proibizionismo e la lotta contro le sostanze stupefacenti, proponendo un passaggio da una strategia politica di criminalizzazione ad una di medicalizzazione. Cosa ne pensi di questo cambiamento di atteggiamento a livello internazionale sulle politiche proibizioniste nei confronti del consumo di droghe?

E’ chiaro che oggi l’industria della droga rappresenta l’underground dell’industria farmaceutica. Dal mio punto di vista quello a cui sta aspirando l’industria farmaceutica è il controllo diretto del mercato delle droghe. Se fosse così arriveranno sicuramente ad ottenerlo: il periodo di crisi è tale che è assolutamente necessario per loro accedere ai benefici economici che il mercato di queste sostanze comporta e che sono lì a disposizione.

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13 Febbraio: in piazza non solo indignazione!

C’erano donne, a Napoli come in tante altre città, che hanno voluto portare in piazza una differenza, espressa dal colore rosso che hanno indossato e portato con loro: tulle, rossetti, parrucche, ombrellini. Noi non siamo “donne per bene” contro “donne per male” e non intendiamo manifestare alcun moralismo.

Siamo le donne dei collettivi femministi, dei comitati territoriali che lottano per l’ambiente, degli sportelli antiviolenza, studentesse, precarie, lavoratrici.

Donne che hanno deciso di rilanciare in piazza il 13: “Se non SEMPRE quando?” per ricordare che non esiste solo un Rubygate e che in Italia i problemi delle donne vanno ricercati ad esempio negli stupri delle donne immigrate nei CIE, nella violenza domestica, nello smantellamento dei servizi sanitari così come dei diritti delle lavoratrici licenziate, precarizzate, sfruttate e ridotte ad invisibilità.

Continued…

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SE NON SEMPRE QUANDO?!


Sono giorni che i media ci ripetono i dettagli del rubygate dove i protagonisti sono: l’uomo cinquantenne con la panza (nei panni di Berlusconi) e ragazze giovani e belle.

Sono giorni che il dibattito politico viene monopolizzato dalla scandalistica di palazzo, e nasconde ogni altra questione sotto il tappeto della schizofrenia mediatica.

Di Ruby ne parlano tutti e la cosa che spaventa è il modo.

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Iniziative contro la violenza maschile sulle donne


SIN MUJERES NO HAY REVOLUCIÒN!

Continued…

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