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Analisi (grammaticale) di un’aggressione omofoba

 

 

Frocio: nome comune di persona da pestare. La stagione della caccia al
frocio si è aperta anche quest’anno col primo caldo, col pestaggio
brutale di una ragazza a Piazza Bellini, e a Napoli, come in tutta
Italia, i vari episodi si sono susseguiti fino a quello degli ultimi
giorni al Gay Village. Poi ancora Napoli.
Il branco di giovanissimi, spossati dal caldo di una noiosa notte di
fine estate, aprono la battuta di caccia alla diversità, una qualunque.
Poteva essere il colore della pelle, ma anche i capelli strani, va bene
tutto, una diversità vale l’altra. Una coppia che parla inglese:
perfetto. “Qui si parla solo la nostra lingua” e giù di botte. Quando Hayk
viene colpito comincia a piangere: “frocio”. Frocio significa debole,
di chi cade e piange sotto i colpi, maschio di serie “B”. Insomma da
eliminare. Frocio non è l’ostentazione inguardabile e disgustosa tra
due persone dello stesso sesso, il gay e la lesbica sono da pestare
perchè… perchè no? Esiste qualcuno che ne parli bene in TV? Perfino i
preti e le suore che stanno sempre con gli ultimi degli ultimi non li
possono soffrire. Non esiste una legge, un riconoscimento, che sia
dalla loro parte, né il Papa, un ministro o un semplice sindaco.
Pestare un frocio si può fare. Figurarsi a Napoli, dove gli impuntiti
episodi degli ultimi mesi dimostrano proprio che tutto è ammissibile.
È seguendo questo filo che l’aggressione, quella sì, meriterebbe un
nome proprio: omofoba. Anche questa volta, però, gli aggrediti si sono
affrettati a smentire la propria omosessualità. La dinamica
dell’aggressione, l’inseguimento, le catene, il contesto degli ultimi
mesi, sembrano escludere l’estemporaneità dell’atto ponendo dinnanzi al
quesito di chi, di quale idea, quale movente ci sia dietro questi
episodi.
Altrettanto difficile è la definizione di chi la violenza l’ha agita,
di questi venti giovanissimi; non un bomberino, una testa rasata, una
svastichella o un innetto al duce che permettano di appellare queste
belve con il nome che meritano per i loro atti: fascisti. Allora tocca
ricorrere ad un nome sin troppo comune: branco.
Così l’aggressione non può essere definita omofoba , e gli aggressori
non possono essere definiti fascisti: di cosa parlano allora le
militanti?
Il più generale sentimento di disagio sociale, fatto da crisi,
disooccupazione, l’inadeguatezza di servizi pubblici come la scuola e
l’assenza di servizi sociali, sono il brodo di cultura
dell’imbarbarimento delle relazioni sociali. Gli stessi responsabili
del disagio, e dunque di questa crisi, spaventati dalla direzione che
può prendere l’inevitabile rabbia sociale, creano le linee di frattura
con cui dividere il blocco unico degli oppressi, proponendo anche dei
veri e propri punch ball contro cui scaricare l’odio. È la stessa paura
degli esiti di tanta rabbia sociale, che impone di diffondere
all’interno della società un sentimento d’insicurezza tale da indurre e
legittimare la delega e la professionalizzazion-e della violenza. Ecco
le città addobbate dall’esercito e illuminate dalle sirene.
È evidente che esiste una questione sicurezza, e questa riguarda
proprio coloro che sono i soggetti più bersagliati proprio dalle
politiche securitarie e dai sentimenti omofobi, razzisiti e fascisti di
questa italietta.
Da un lato le organizzazioni istituzionali, sempre attente a
normalizzare gli istinti più radicali dei soggetti che pretenderebbero
di rappresentare, si sono poste sulla stessa lunghezza d’onda dei
Governi, chiedendo un ulteriore militarizzazione delle città e
l’inasprimento del controllo sociale, cercando un dialogo anche con gli
ambienti più retrivi della nostra società, come i sindaci (Alemnanno)
che non autorizzano le manifestazioni LGBTIQ e non si risparmiano
dichiarazioni omofobe, come quelle che richiamano al contegno di questi
soggetti della stessa Iervolino, che oggi cade dal pero.

Dall’altro lato, opposto, i residui del movimento che pongono al centro
la questione dell’Autodifesa. Nome non affatto comune di tattica da
declinare (ovviamnete al femminile!). Il sentimento è quello della
rabbia, intensa, contro le continue vessazioni; violenza da
canalizzare, ma non delegabile, di cui gay lesbiche trans e donne non
vogliono più essere oggetto, ma soggetto. Autodifesa, per quanto sia
una parola difficile da nominare nella città teatro di questi ultimi
episodi rappresenta,anche se apparentemente impraticabile, la parola
d’ordine di chi comunque vuole porre una sponda al senso comune che si
sposta sempre più a destra e ancora una volta di più ogni volta che a
seguito di un’aggressione si chiede più polizia.

Il tutto in una città dove la sicurezza ha un costo, si vende e si
compra dalle famiglie che in ogni quartiere hanno un nome proprio, anzi
un cognome

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